Una docente di un Istituto tecnico commerciale sostiene di essere stata destinataria di comportamenti vessatori e mortificanti da parte del dirigente scolastico. La condotta mobbizzante consisterebbe nell’irrogazione di diversi provvedimenti disciplinari ritenuti offensivi, degradanti e pretestuosi. In pratica, la docente aveva dovuto affrontare diverse terapie post operatorie (per causa patologica nota all’Istituto) e al tempo stesso veniva sottoposta a diverse visite fiscali. la condotta era chiaramente espressiva non di un contrasto momentaneo ma di un risentimento maturato nel tempo ed anche reiteratamente manifestatosi, come lamentato della ricorrente e riscontrato dei documenti e dalle dichiarazioni testimoniali. Le dichiarazioni testimoniali di entrambe le parti evidenziavano la palese pretestuosità delle sanzioni disciplinari; dalle dichiarazioni appariva grave e ingiuriosa la contestazione di avere utilizzato impropriamente i bagni degli alunni senza tenere conto delle ragioni di salute poste a base di tale comportamento (recarsi al piano superiore senza ascensore).
Tali inaccettabili comportamenti oltre ad incidere, sia complessivamente che singolarmente, sulla dignità del docente avevano provocato danni alla salute, come riscontrato degli accertamenti peritali disposti nel grado di appello.
In primo grado il giudice accoglieva parzialmente il ricorso della docente ma non ha rigettato la richiesta di risarcimento danni da mobbing. Il primo giudice aveva osservato, che pur essendo le tre sanzioni impugnate illegittime, non era risultata sufficientemente provata la condotta dequalificante e mobbizzante lamentata dalla docente.
Il ricorso in Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello è proposto dal Ministero dell’Istruzione. La sentenza impugnata aveva accolto la domanda di risarcimento del danno proposta dalla docente, condannando i convenuti (Miur e Istituto) al pagamento della somma di circa 28.000 euro.
Secondo la Corte d’Appello, dai documenti e dalle testimonianze dei colleghi di lavoro, appariva innegabile che nei confronti della docente si fossero verificati comportamenti ingiustamente vessatori e mortificanti, anche di per sé, per la loro gravità ed incisività, forieri di danni risarcibili. La docente era poi sottoposta a continui, improvvisi ed ingiustificati controlli dal personale della scuola mentre era in aula.
In queste controversie assumono un peso non indifferente le deposizioni testimoniali dei colleghi di lavoro del presunto danneggiato dalla condotta mobizzante.
Tuttavia, per il rapporto intercorrente tra datore di lavoro e colleghi, occorre tener conto che le stesse possono essere state “frenate” dalla dipendenza nei confronti dello stesso datore di lavoro e dalle remore derivanti dal non inimicarsi lo stesso. Pertanto in tal sede devono ritenersi significative, e per certi versi di per sé confermative, anche espressioni talora sfumate e sfuggenti.
La deposizione testimoniale dei colleghi di lavoro assume rilievo, ad esempio, nella conferma delle qualità positive del dipendente a fronte della denigrazione da parte del datore di lavoro. In particolare, la confermata professionalità del docente “mobbizzato” mette in luce che i contrasti tra datore di lavoro e dipendente non sono momentanei ed episodici, ma dovuti, come spesso accade nelle controversie sul danno derivante da “mobbing”, da un clima di risentimento tra datore di lavoro e lavoratore, maturato nel tempo ed anche presumibilmente, costantemente e reiteratamente manifestatosi in tutto l’arco del periodo lavorativo.
Per "mobbing" si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti:
i) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
ii) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
iii) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore;
iv) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
Più di recente, una significativa evoluzione giurisprudenziale è stata inoltre segnata dal principio secondo il quale, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità di una condotta di "mobbing", è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati - esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale - pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili.
La Corte ha rigettato il ricorso e ha condannato le parti ricorrenti (Miur e Istituto scolastico) al pagamento delle spese processuali. Viene pertanto confermata l’impugnata sentenza della Corte d’appello. In Corte d’appello era stato condannato il Miur al pagamento in favore della docente (ricorrente in primo grado e appellante in secondo) della somma complessiva di circa 28.000 euro.
Cassazione civile, sez. Vi, 03/05/2019, n.11739