L’esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica delle decisioni aziendali, sebbene sia garan­tito dagli artt. 21 e 39 Costituzione, incontra i limiti della correttezza formale che sono imposti dall'esi­genza, anch'essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.), di tutela della persona umana. Ne conse­gue che, ove tali limiti siano superati, con l'attribu­zione all'impresa datoriale o ai suoi rappresentanti di qualità apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da susci­tare il disprezzo e il dileggio, il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenzia­mento, pur in mancanza degli elementi soggettivi ed oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione.

La Suprema Corte ha sottolineato che «anche il diritto di satira non si sottrae al limite del­la c.d. continenza formale (cfr. Cass. n. 14485 del 2000, Cass. n. 7091 del 2001), ossia non può essere sganciato da ogni limite di forma espositiva». Tra i due interessi collidenti (dell'impresa, cui le afferma­zioni lesive sono rivolte, e dell'autore della libera ma­nifestazione del pensiero) occorre dunque trovare un «punto di intersezione e di equilibrio che va indivi­duato nel limite in cui il secondo interesse non rechi pregiudizio all'onore, alla reputazione e al decoro di chi ne è destinatario».

Ad avviso della Corte di Cassazione, sebbene la plate­ale inverosimiglianza dei fatti espressi in forma sati­rica porti, in genere, a escludere la loro capacità di offendere l'altrui reputazione, tuttavia «neppure la satira può esorbitare dalla continenza, ossia dai limi­ti di correttezza formale che le sono imposti, nel caso di attribuzione di qualità apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il dispregio e il dileggio».

Pertanto, ove tali limiti siano superati, il comporta­mento del dipendente può costituire, pur in mancan­za degli elementi soggettivi ed oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione, giusta causa di licenziamento.

A parere della Corte, la rappresentazione scenica ope­rata dai lavoratori licenziati, considerata in tutti i suoi elementi (il patibolo, il manichino impiccato con la foto dell'amministratore delegato, lo scritto affisso al palo come testamento, le tute macchiate di vernice color rosso sangue), ha dunque ecceduto i limiti della continenza formale e, contravvenendo al c.d. "mini­mo etico" (inteso come rispetto dei canoni dell'ordi­naria convivenza civile), ha leso irrimediabilmente il rapporto fiduciario che lega datore e prestatore di la­voro, con ciò legittimando il licenziamento per giusta causa del secondo.

Corte di Cassazione Sez. Lav. 6 giugno 2018, n. 14527