La Corte di cassazione Sez. Lav., 27 febbraio 2024, n. 5169 ha affermato che il licenziamento intimato nei confronti del lavoratore pubblico che compie una falsa attestazione della propria presenza in servizio è assoggettato ad un giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto alla condotta che, ove adeguatamente motivato dal giudice di merito, non è sindacabile in sede di legittimità.

La Corte di cassazione torna ad esprimersi sull'ipotesi di licenziamento intimato nei confronti di un lavoratore, dipendente della pubblica amministrazione, allontanatosi illegittimamente dal luogo di lavoro senza far risultare l'assenza dai sistemi di rilevamento delle presenze.

Nello specifico, il licenziamento era stato intimato a seguito di alcune indagini penali dalle quali risultava che il dipendente avesse posto in essere la condotta a cui l'art. 55 quater d.lgs. n. 165 del 2001 fa conseguire la sanzione del licenziamento («si applica comunque la sanzione disciplinare del licenziamento nei seguenti casi:

a) falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente»). La legittimità del licenziamento del lavoratore, destinatario anche di una misura cautelare in sede penale, è stata confermata sia in primo che in secondo grado, proprio sulla base delle risultanze poste a fondamento della misura cautelare.

Sull'inammissibile utilizzo di tali risultanze si incentra uno dei motivi di ricorso in Cassazione che censura la sentenza della Corte d'appello nella parte in cui motiva la decisione con riferimento all'ordinanza cautelare. poi caducata in sede di riesame.

La sentenza di secondo grado viene, inoltre, censurata nella parte in cui ha ritenuto applicabile al caso di specie il procedimento accelerato, nonostante mancasse l'accertamento in flagranza del reato, presupposto espressamente individuato dalla norma (art. 55 quater, co. 3 bis e 3 ter) per l'applicazione di tale procedura semplificata, oltreché per un asserito difetto di valutazione della gravità e proporzionalità della sanzione rispetto alla condotta.

Tutti i suddetti motivi di ricorso vengono ritenuti inammissibili dalla Corte di Cassazione in quanto finalizzati ad una rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, notoriamente preclusa in sede di legittimità.

La Corte, dando seguito al precedente orientamento per il quale è comunque necessario, anche in presenza di un'ipotesi, tipizzata dal legislatore, di condotta punibile con il licenziamento, operare un giudizio di proporzionalità "in concreto", ritiene che la motivazione addotta a fondamento della sentenza d'appello sia legittimamente utilizzabile a prescindere dalla sorte della misura cautelare disposta sulla base delle stesse risultanze, e debba essere considerata adeguata nella parte in cui ha «escluso qualsivoglia lesione del diritto di difesa in relazione al procedimento disciplinare adottato, ritenuto integrata la giusta causa di recesso e valutato la gravità della condotta senza ricorrere ad automatismi, in assenza di idonee giustificazioni da parte del lavoratore», escludendo così la fondatezza delle pretese del lavoratore ricorrente.