Non è infrequente che la scuola in sede di verifica del casellario giudiziale possa trovarsi di fronte a dipendenti che abbiamo commesso dei reati prima della costituzione del rapporto di lavoro pubblico. In tal caso bisogna valutare l'incidenza di tali reati sul rapporto di lavoro e decidere sulla permanenza in servizio del lavoratore.
La Corte di cassazione, sez. lav., ord. 4 aprile 2024, n. 8899 ha affermato che il licenziamento per giusta causa per una condotta extralavorativa costituente reato è illegittimo laddove la condanna sia definitiva e si riferisca all’accertamento di fatti, anche gravi, antecedenti all’instaurazione del rapporto di lavoro, perché non possono ritenersi incompatibili con il permanere del vincolo fiduciario che caratterizza il rapporto di lavoro stesso nel suo attuale svolgimento.
La Corte di Appello confermando la sentenza del Tribunale quale giudice di prime cure, accertava l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore e ne disponeva la reintegrazione nel posto di lavoro, con condanna della società al pagamento dell’indennità risarcitoria quantificata in dodici mensilità.
In sintesi, la società apprendeva che, in epoca antecedente all’assunzione del lavoratore, il medesimo aveva conseguito delle condanne in sede penali per reati gravi; deduceva quindi una lesione del vincolo fiduciario che deve necessariamente intercorrere tra le parti del rapporto di lavoro, e attivava per tanto il licenziamento per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 cod. civ., atteso che, come noto, laddove la diversa fattispecie del licenziamento per giustificato motivo soggettivo prevede quale presupposto il notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, il licenziamento per giusta causa è caratterizzato da un perimetro più ampio, estendendosi, almeno astrattamente, a qualsiasi comportamento, anche non pertinente alla corretta esecuzione delle obbligazioni contrattualmente dedotte, idoneo a lesionare definitivamente il predetto vincolo di fiducia.
Le Corte di merito, riteneva l’addebito addotto a presupposto del licenziamento come “insussistente nella sua materialità”, per essere un mero fatto giuridico irrilevante disciplinarmente ed inidoneo a giustificare la conclusione del rapporto di lavoro.
La società soccombente nei due gradi di giudizio proponeva pertanto ricorso per Cassazione, affidandolo a due motivi.
Con il primo motivo di ricorso, la società denunciava la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e, nello specifico, della interpretazione giudiziale della c.d. clausola elastica della “giusta causa”.
Infatti, a seguito di controlli effettuati in esecuzione di un obbligo di vigilanza ex D.Lgs. n. 159/2011, la società aveva acquisito il certificato penale del casellario giudiziale ed il certificato dei carichi pendenti del lavoratore, da cui era emerso che lo stesso aveva riportato condanne per reati quali associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, con conseguente condanna definitiva alla reclusione per cinque anni ed interdetto in via perpetua dai pubblici uffici.
La società deduceva di essere venuta a conoscenza delle condotte contestate solo dopo l’instaurazione del vincolo contrattuale e sottolineava che, operando esclusivamente nell’ambito di appalti con la pubblica amministrazione, la condotta extralavorativa del lavoratore, per quanto risalente, dovesse ritenersi rilevante e conseguentemente integrare a tutti gli effetti una giusta causa di recesso, per essere il comportamento accertato contrario al principio del c.d. “minimo etico” più volte richiamato dalla giurisprudenza di merito e legittimità.
Con il secondo motivo di ricorso si censurava la sentenza della Corte per avere, in violazione e falsa applicazione dei commi 4 e 5 dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, erroneamente individuato il regime sanzionatorio (tutela reintegratoria invece che obbligatoria) applicabile alla fattispecie nel comma 4 della citata norma invece che nel successivo comma 5.
Si evidenziava che il fatto constatato al lavoratore era esistente e che l’unica censura possibile potesse essere quella relativa alla proporzionalità rispetto alla sanzione espulsiva irrogata.
Entrambi i motivi di ricorso venivano ritenuti infondati.
In riferimento alle doglianze contenute nel primo motivo di ricorso, la Suprema corte ribadiva il proprio orientamento relativo a condotte extra lavorative, integranti illecito penale, tenute prima dell’instaurazione del rapporto lavorativo.
In particolare la suprema corte richiamava la propria sentenza n. 24259/2016 in cui veniva affermato che:”Solo una condotta posta in essere mentre il rapporto di lavoro è in corso può integrare stricto iure una responsabilità disciplinare del dipendente, diversamente non configurandosi neppure obbligo alcuno di diligenza e/o di fedeltà ex artt. 2104 e 2105 c.c. e, quindi, sua ipotetica violazione sanzionabile ai sensi dell’art. 2106 c.c.; condotte costituenti reato possono - anche a prescindere da apposita previsione contrattuale in tal senso - integrare giusta causa di licenziamento sebbene realizzate prima dell’instaurarsi del rapporto di lavoro, purché siano state giudicate con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto e si rivelino - attraverso una verifica giurisdizionale da effettuarsi sia in astratto sia in concreto - incompatibili con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza”.
Affermava inoltre la Suprema Corte che la nozione di ‘giusta causa’ ai sensi del combinato disposto tra gli artt. 2119 c.c. e 1, l. 604/1966 non si debba intendere esclusivamente la condotta ontologicamente disciplinare, ma anche quella che, pur non essendo stata posta in essere in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro e magari si sia verificata anteriormente ad esso, nondimeno si rilevi ugualmente incompatibile con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza e sempre che sia stata giudicata con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto.
Il Giudice, quindi, in osservanza a tale precetto nomofilattico, deve valutare se la condotta extralavorativa sia di per sé incompatibile con l’essenziale elemento fiduciario proprio del rapporto di lavoro, in ossequio alla seguente massima di diritto: “Condotte costituenti reato possono - anche a prescindere da apposita previsione contrattuale in tal senso - integrare giusta causa di licenziamento sebbene realizzate prima dell’instaurarsi del rapporto di lavoro, purché siano state giudicate con sentenza di condanna irrevocabile e si rivelino incompatibili con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza”.
Nella specie, i fatti addebitati al lavoratore non erano solo risalenti nel tempo, ma la stessa irrevocabilità della sentenza di condanna risultava antecedente all’instaurazione del rapporto di lavoro (circostanza la cui menzione non appare peregrina, attese le finalità rieducative associate alla pena dalla nostra Costituzione).
I giudici del merito, ad ogni modo, non ritenevano le dette, risalenti condotte extralavorative incompatibili con il permanere del vincolo fiduciario connotante il rapporto di lavoro dedotto in giudizio; detto apprezzamento sussume ai noti vincoli del sindacato di legittimità in ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo di licenziamento (Cass. 20780/2022).
Ne conseguiva che, a fronte di una motivazione con cui la Corte escludeva la riconducibilità a licenziamento per giusta causa dovuta ai sopra ricapitolati fatti estranei al rapporto lavorativo, anche in quanto molto risalenti nel tempo e precedenti all’instaurazione del rapporto, parte ricorrente di fatto si limitava ad una censura oppositiva/contrappositiva della sentenza d’Appello, di talché la doglianza veniva ritenuta priva dello specifico rilievo giuridico proprio dei ricorsi per Cassazione e doveva ritenersi infondata.
Anche il secondo motivo di ricorso, con cui la società ricorrente si doleva della applicazione della tutela reintegratoria riconosciuta al lavoratore illegittimamente licenziato, vigente la disciplina di cui all’art.18 della legge n. 300 del 1970 come modificato dalla c.d. “Legge Fornero”, veniva ritenuto infondato, atteso che il fatto contestato era da ritenere insussistente, nel senso di irrilevante da un punto di vista disciplinare.
Il ricorso veniva pertanto rigettato; le spese di lite seguivano la soccombenza.